Lazzaro è un cantautore sui generis, un ibrido fra correnti e linguaggi diversi che trovano la perfetta sintesi in una proposta autentica, vigorosa e allo stesso tempo capace di “carezzare” l’ascoltatore fin nell’intimo delle sue insicurezze, delle sue perplessità: “Oro” è il secondo singolo dell’artista toscano, e noi abbiamo deciso di non perdere l’occasione di fargli qualche domanda.
Bentrovato sulle nostre colonne Lazzaro, non è certo cosa di tutti i giorni trovarsi di fronte ad un artista con un nome del genere… Possiamo farti la domanda più banaledi sempre, e chiederti subito il perché di questa scelta?
Avevo una piccola lista di nomi ma che non mi convincevano a pieno. Sono partito cercando un nome che fosse breve e comprensibile e quando me ne veniva in mente uno lo aggiungevo in coda agli altri. “Lazzaro” mi ha convinto fin da subito. Il nome mi piaceva come suonava, aveva una storia di rinascita che potevo affiancare alla mia, in più richiamava a brani di artisti che mi avevano formato: Bowie, Subsonica…
Raccontaci un po’ di te, questo è davvero un “debutto” completo, o è soltanto una “rinascita” musicale dopo altre esperienze precedenti nel mondo delle sette note? Da dove parte il percorso di Lazzaro?
Questo è un debutto in tutto e per tutto. Ho sempre avuto il prurito della musica, ma era solo una vocina che restava vocina. Poi in realtà, più che per vocazione, mi sono ritrovato a scrivere per caso e quando ho capito che c’era un bisogno di fondo, più intimo, mi sono deciso a farlo con metodo e a non relegarlo più solo a semplice passatempo.
Vieni dalla provincia, e in qualche modo la rabbia della provincia sembra affiorare sin dai primi ascolti del tuo lavoro… Quanto credi abbia avuto influenza, su di te, il luogo in cui sei cresciuto? Ti va di parlarcene?
La provincia è morta. Forse sono troppo severo con la provincia, ma sono convinto che non ci sia niente di buono, se non essere madre di quella sana rabbia che ti spinge a mangiarti il mondo, o almeno a provarci. Il problema della provincia è che spesso, a meno che non si viva in borghi abbandonati dalla civiltà e intrisi di tradizione, è sempre una brutta copia della città. La provincia guarda la città e ne assume lo stesso sguardo e gli stessi gusti ma senza i mezzi, gli spazi e le luci della città. Questo penso sia il motivo principale per cui in provincia si ha sempre quel piccolo buco allo stomaco che ti fa venire voglia di prendere e partire.
“Fears” aveva inaugurato la tua collaborazione con Nicola Baronti, uno che di musica bella ne ha prodotta eccome… Come si è sviluppato il vostro incontro?
Ho conosciuto Nicola grazie ad Elemento Umano. Come me, anche lui aveva scritto un disco ed era alla ricerca di sapienti mani per produrlo a dovere, così non appena lo ha conosciuto me lo ha presentato. Con Elemento Umano abbiamo prodotto delle demo di alcuni brani del disco, con le quali mi sono presentato allo studio (La tana del Bianconiglio) per arrivare con un’idea chiara da proporre. Assistere al lavoro di Nicola è stato come fare un corso intensivo di vita: durante le giornate di studio ho imparato un sacco di cose e ne ho scoperte tante altre che prima ignoravo completamente, dopotutto l’ho già detto che questo è un debutto.
“Oro”, a differenza di “Fears”, non sembra interessata a “luccicare”, nonostante il contenuto di un testo che a tratti sembra farsi anche di “denuncia”… o meglio, luccica eccome, ma con atmosfere più rarefatte rispetto al precedente singolo. È così?
Sono contento che si noti questa differenza. È vero che entrambi sono brani che vogliono essere ascoltati e ballati il più possibile, ma se Fears era una mia riflessione sulla paura che sfociava in un grido liberatorio, in Oro la mia paura è che tutto resti uguale a come già lo vedo: un mondo per pochi, di ruoli ben definiti e di distanze che restano distanze.
Come possiamo fare a non lasciarci abbagliare da tutto ciò che luccica? Tu hai imparato a farlo?
In ogni detto popolare c’è dentro una dose di verità, quindi anche “Non è tutto oro ciò che luccica” deve averlo. Magari ci vorranno duemila anni (cit.), ma resettare tutto e riassegnare ad ogni cosa il giusto valore potrebbe essere un modo per non essere accecati dalle luci dell’ultima inutile vetrina dell’ennesimo centro commerciale.